Il presidente della SIGE, il palermitano Antonio Craxì (nella foto), giudica una moda pericolosa quella di autodiagnosticarsi una “sensibilità al glutine non celiaca” . Molti presunti intolleranti, infatti, “sono in realtà dei veri celiaci e come tali vanno inquadrati e seguiti da uno specialista”. I gastroenterologi ricordano come questa condizione, “dai contorni assai sfumati”, è finita da qualche tempo sotto la luce dei riflettori. Si allarga, infatti, la rosa delle potenziali proteine alimentari colpevoli di disturbi simili a quelli della sindrome dell’intestino irritabile (pancia gonfia, dolori addominali, diarrea alternata a stipsi), molto frequenti tra la popolazione generale, in particolare tra le donne. Sintomi ai quali si accompagnano spesso anche stanchezza, malessere generale, cefalea, difficoltà di concentrazione, eczemi, dolori articolari. Se finora l’indice è stato puntato solo contro il glutine, più di recente sul banco degli imputati sono comparse anche altre proteine del grano. “In un mondo sempre più dominato da mitologie dietetiche fomentate da un’informazione ad alto flusso, di facile accesso ma non controllata e non sempre attendibile – sottolinea Craxì – il ruolo di una società scientifica è quello di fornire al pubblico la visione più aggiornata, comprensibile e nel contempo bilanciata su quanto la ricerca scientifica, ma anche le mode del momento pongono all’attenzione di tutti”. La Sige, “che raccoglie il maggior numero dei clinici e dei ricercatori italiani attivi nel campo delle malattie digestive, si pone come interlocutore attento e consapevole dei bisogni di salute, ma anche delle incertezze che derivano da una informazione spesso improntata a soddisfare esigenze commerciali più che a sostenere il benessere individuale”, dice Craxì. Cosa sappiamo allora? Secondo alcuni ricercatori gli inibitori dell’amilasi-tripsina o Ati, che rappresentano il 4% appena di tutte le proteine del frumento, sarebbero in grado di accendere l’infiammazione a livello dell’intestino, da dove si diffonderebbe a una serie di tessuti quali linfonodi, reni, milza e addirittura al cervello. “Si tratta di osservazioni preliminari – afferma Carolina Ciacci, ordinario di Gastroenterologia dell’Università di Salerno – che andranno valutate e validate attraverso studi clinici nell’uomo”. Le Ati sono piccoli frammenti di proteine antigeniche, contenute nel frumento insieme al glutine, che inducono una risposta immunologica nella quale si producono soprattutto citochine (molecole infiammatorie) e questo segna l’inizio di una microinfiammazione “che non siamo ancora in grado di misurare, ma che induce malessere”. Questi pazienti non sono celiaci e hanno sintomi gastrointestinali o talora molto vaghi come cefalea, difficoltà di concentrazione, senso di testa vuota anche a distanza di minuti dopo aver consumato cibi contenenti frumento. Anche per questo ci si sta orientando a parlare non più o non solo di ‘intolleranza al glutine’, ma di ‘intolleranza al grano’. Ma si tratta di disturbi di moda o problemi reali? La celiachia secondo le stime interessa almeno un italiano su 100 (come in tutto il mondo occidentale), anche se i soggetti geneticamente predisposti a questa condizione sono circa il 30% della popolazione. “La celiachia – spiega Ciacci – è una intolleranza al glutine, un complesso di proteine presenti nel grano e in altri cereali (orzo, segale, eccetera) che attiva una risposta immunologica in persone geneticamente predisposte. Nel sospetto clinico di celiachia e mentre il soggetto sta facendo una dieta contenente glutine – prosegue – vanno effettuati la ricerca di anticorpi anti-transglutaminasi IgA nel sangue e il dosaggio delle immunoglobuline IgA totali. Se il test risulta positivo si fa un secondo prelievo per gli anticorpi anti-endomisio IgA. Per avere un’ulteriore certezza si possono fare anche i test genetici. La positività di questi esami in un bambino sintomatico è sufficiente per fare diagnosi di celiachia. Nell’adulto, invece, si deve necessariamente fare la biopsia dei villi della seconda porzione del duodeno per fare diagnosi di celiachia”. Mentre per la celiachia i criteri diagnostici sono chiari, più controversa è la diagnosi di sensibilità al glutine non celiaca. “Quando non ci sono gli elementi per far diagnosi di celiachia – afferma Ciacci – ma la persona riferisce che i suoi sintomi sono alleviati o scompaiono con una dieta senza glutine, questa persona si autodefinisce intollerante al glutine o affetta da sensibilità al glutine di tipo non celiaco. Sono stati proposti diversi protocolli per la diagnosi di questa condizione, ma in assenza di biomarcatori o di alterazioni istologiche tipiche, la diagnosi può essere solo di esclusione. In linea di massima gli esperti concordano che, se dopo 6 settimane di dieta priva di glutine non si osservano miglioramenti sui sintomi addominale, la diagnosi di ‘sensibilità’ può essere esclusa con ragionevole certezza”. E la terapia? Molti di questi soggetti presunti intolleranti finiscono con l’adottare spontaneamente una dieta gluten-free che in alcuni contesti, come gli Stati Uniti, è stata scelta anche da un americano su 4, facendo esplodere il mercato dei prodotti gluten-free che lo scorso anno ha battuto cassa per 11,6 miliardi di dollari e presenta un trend di crescita inarrestabile, concludono gli esperti.