La ricerca e l’epidemia emergente da Monkeypox

La ricerca e l’epidemia emergente da Monkeypox

18 Luglio 2022 di: Angelo Milazzo 0

Il virus Monkeypox ha già colpito 7500 persone, in oltre 54 Paesi, su tutto il Pianeta. Risulta pertanto evidente che trattasi di epidemia, anche se di dimensioni infinitesimali rispetto a quella dovuta a Sars-Cov-2, con le sue continue variazioni.
Gli Orthopoxvirus, genere a cui appartiene il Monkeypox, sono grandi virus a DNA che, solitamente, determinano solo 1-2 mutazioni per anno, un nulla in confronto a Sars-Cov-2, che ha dimostrato poter produrre più di due mutazioni ogni mese. Al contrario, in uno Studio pubblicato su Nature Communication i ricercatori, analizzando le sequenze messe a disposizione dalle Autorità sanitarie del Portogallo e dal National Center for Biotechnology Information di Bethesda, tra il 20 e il 27 maggio 2022, hanno rilevato che questo recente ceppo differiva di ben 50 polimorfismi nucleotidici, rispetto agli ultimi ceppi del virus. I dati genetici indicano che il virus ha con tutta probabilità un’unica origine, risalente all’epidemia che si diffuse in Nigeria negli anni 2017 e 2018. Il virus attuale appartiene alla clade3, che rappresenta quella meno letale, presente soprattutto nell’Africa Occidentale. I rapidi cambiamenti nel genoma virale potrebbero essere stati indotti da una famiglia di proteine che svolge un ruolo nell’immunità virale. Trattasi dell’enzima di modifica dell’mRna dell’apolipoproteina b,  il polipeptide catalitico 3 (APOBEC3). Ciò, almeno in parte, potrebbe spiegare la notevole capacità recentemente acquisita dal virus di fare varianti.

Uno Studio recentemente condotto a Londra su 54 uomini ai quali era stato diagnosticato il “vaiolo delle scimmie”, ha fatto rilevare una sintomatologia diversa dalle aspettative. I pazienti hanno dimostrato lesioni della pelle nella zona genitale o orale, mentre non sono stati riferiti sintomi generali finora ritenuti costanti, quali astenia, febbre, malessere generale marcato. Il 90% ha riferito di aver avuto almeno un nuovo partner sessuale durante le tre settimane precedenti l’insorgere dei sintomi. Quasi tutti hanno dichiarato di aver utilizzato il preservativo in maniera sporadica. Il loro ricovero è comunque durato al massimo 7 giorni e i pazienti sono stati tutti dimessi, senza apparenti sequele. Finora non esiste alcun vaccino specifico e quindi ci si affida al vecchio vaccino contro l’ormai eradicato vaiolo umano. In Europa l’unico vaccino antivaioloso approvato anche contro il Monkeypox è l’Imvamine (MVA-BN). Ed è stato dimostrato che è proprio lo stato vaccinale che può influenzare l’andamento clinico della malattia. Persino i soggetti che praticarono il vaccino contro il vaiolo, prima che venisse definitivamente abbandonato all’inizio degli anni ’80, hanno dimostrato una certa protezione. Le complicanze gravi in questi soggetti, protetti da vaccinazioni remote, sono risultati essere molto meno frequenti. I pochissimi individui deceduti a causa del Monkeypox sono risultati tutti non essere stati mai vaccinati.
L’unico farmaco disponibile contro la malattia è il Tecovirimat, che ha una potente attività contro diversi Orthopoxvirus. Agisce inibendo il gene V061, che codifica una proteina necessaria per la produzione del capside virale. Il Tecovirimat, in analogia ad altri antivirali, agisce soprattutto se somministrato pochi giorni dopo l’esordio clinico della malattia. Risulta sempre più importante l’applicazione delle regole e linee guida elaborate dalle varie Autorità Sanitarie e dagli Organismi Internazionali.

Autore

Angelo Milazzo

Presidente Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale (Sipps),


Email: milazzo@cataniamedica.it

Your email address will not be published. Required fields are marked *