In una recente sentenza, la 668/2018, la III sezione della Cassazione ha affermato che il medico deve sempre utilizzare un linguaggio comprensibile al paziente. Un articolo del dott Dario Zappalà fa il punto.
Detto disposto implica necessariamente il concetto sul consenso che in Italia viene definito “informato”, a mio parere erroneamente poiché nessun consenso può essere acquisito senza informazione. L’equivoco nasce probabilmente dall’accezione anglosassone “informed consent” ma è evidente come il passaggio fondamentale per
poter esercitare lecitamente un atto medico sul paziente sia quello della corretta informazione, laddove per “corretta” deve intendersi, come evidenzia la citata sentenza, anche la constatazione della comprensione da parte dell’interlocutore. Infatti, in Italia il consenso informato è una forma di autorizzazione del paziente a ricevere un qualunque trattamento sanitario mentre l’art. 32 della Costituzione italiana sancisce che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, in sintonia con il principio
fondamentale della inviolabilità della libertà personale (art. 13). Il caso trattato in sentenza è un caso limite le cui conseguenze giuridiche deferiamo all’interpretazione dei giuristi e degli avvocati ma da essa estrapoliamo un
concetto assoluto, cioè che ogni lesione di un diritto costituisca la perdita della possibilità da parte del danneggiato di esercitare scelte diverse. Secondo la Cassazione “l’obbligo di una informazione del paziente da parte del
medico che sia effettuata in modo completo e con modalità congrue caratterizza la professione sanitaria”; la giurisprudenza della Suprema Corte ha sviluppato il concetto della necessaria informazione non solo riguardo alla decisione di sottomettersi ai trattamenti proposti dal medico ma altresì di creare il presupposto dell’esercizio del diritto di autodeterminazione in ordine a scelte successive della persona-paziente. Pertanto, l’informazione non deve intendersi come professionalmente criptica bensì adeguata alle conoscenze e allo stato soggettivo del paziente adeguando il linguaggio all’accessibilità comprensiva onde illustrare anche le caratteristiche di gravità o di rischio di gravità di quanto riscontrato da un esame diagnostico poiché se non percepite chiaramente dall’interlocutore si configura comportamento lesivo nei confronti dei diritti del paziente. Il consenso informato ovviamente non elimina la responsabilità del sanitario, che incorre nel reato di lesioni se un trattamento o un’errata diagnosi comportino una
qualche menomazione temporanea o permanente, dal punto di vista organico o funzionale, non giustificata da patologie in essere. Circa le modalità di acquisizione del consenso va chiarito che quando è consolidato il rapporto di fiducia tra il medico e l’ammalato, il consenso può essere anche solo verbale ma deve essere espresso direttamente al sanitario purché le informazioni siano state prodotte in modo comprensibile e adeguate al livello
culturale e intellettivo dell’individuo. Le uniche eccezioni all’obbligo del consenso informato sono:
- le situazioni nelle quali la persona malata ha espresso esplicitamente la volontà
di non essere informata; - le condizioni della persona siano talmente gravi e pericolose per la sua vita da
richiedere un immediato intervento di necessità e urgenza indispensabile
(consenso presunto); - i casi in cui si può parlare di consenso implicito (cure di routine o prescrizioni
per malattia nota); - in caso di rischi che riguardano conseguenze atipiche, eccezionali ed
imprevedibili (un intervento chirurgico che possono causare ansie e timori
inutili), almeno che il malato non richieda direttamente anche questo tipo di
informazioni - i Trattamenti Sanitari Obbligatori (TSO).