Epidemia da Parvovirus b19 rilevanza e indicazioni per la gravidanza

Epidemia da Parvovirus b19 rilevanza e indicazioni per la gravidanza

2 Luglio 2024 di: Staff I-Press 0

Da alcune settimane è in corso una rilevante epidemia da parvovirus B19, agente eziologico della “quinta malattia”. Questo virus si trasmette per via inalatoria e, quindi, il suo controllo è estremamente difficile. Nei soggetti sani l’infezione di norma non causa effetti di rilievo. L’infezione primaria acquisita in gravidanza non ha un’azione malformativa fetale nella comune accezione del termine ma, in particolare nel corso dei primi due trimestri di gravidanza, può indurre aborto spontaneo o morte in utero del prodotto del concepimento. Ciò è la conseguenza della distruzione dei precursori dei globuli rossi, uno dei principali bersagli di questo virus: il danno su queste cellule può causare un’anemizzazione fetale anche grave che, se trascurata, potrebbe indurre danni non immediatamente apparenti da ipossia fetale.
In questa fase epidemica è importante eseguire tempestivamente lo screening sierologico QUANTITATIVO o semiquantitativo della gravida e ripeterlo presso lo stesso laboratorio dopo due o tre settimane.
Nella prima fase, l’infezione può presentarsi con una sintomatologia aspecifica quale, ad esempio, malessere generale, brividi, febbre o febbricola, cefalea e mialgia. In questo stadio, che si verifica circa tre-cinque giorni dopo l’infezione, si ha già viremia e il soggetto è già infettante da qualche giorno.
Circa quattro giorni dopo la scomparsa dei sintomi aspecifici può comparire, principalmente nei bambini, un’eruzione cutanea di tipo eritematoso che colpisce diversi distretti cutanei, specie le guance dei piccoli pazienti che sembrano essere stati schiaffeggiati, da cui il nome popolare di “faccia schiaffeggiata”. In questa fase il bambino non manifesterà una sintomatologia rilevante, a parte l’eritema e, talvolta, una lieve astenia, ma sicuramente è da considerarsi infettante già da oltre una settimana.

Le cellule elettivamente colpite dal parvovirus B19 sono di norma i precursori dei globuli rossi e, di conseguenza, il virus può indurre per un discreto periodo di tempo una ridotta produzione di globuli rossi e una modesta anemizzazione. Le cellule embrionali e le cellule fetali, in particolare, presentano sulla loro superficie una proteina, detta globoside o antigene P, che è indispensabile al virus nelle prime fasi dell’infezione cellulare.
Solitamente, in soggetti che non abbiano altre patologie concomitanti, non si hanno esiti significativi, tuttavia, in alcuni casi, in particolare negli immunodepressi, possono verificarsi patologie rilevanti anche a causa del fatto che l’antigene P può essere presente anche in altre linee cellulari, comprese le cellule miocardiche.
Nel caso in cui venga infettata una donna in gravidanza nei primi due trimestri di gestazione, la patogenesi della eventuale anemizzazione è legata al fatto che il virus colpisce i precursori degli eritrociti, che vengono prodotti essenzialmente dal fegato fetale fino a circa la XVIII-XX settimana di gestazione, mentre successivamente nell’emopoiesi fetale interviene anche il midollo osseo fino a sostituirsi del tutto al fegato. I globuli rossi prodotti a livello epatico hanno un’emivita decisamente più breve rispetto a quelli derivanti dall’emopoiesi midollare. Ciò comporta una fase di anemizzazione che, però, non coincide perfettamente con la sintomatologia manifesta ma può indurre anemizzazione fetale anche dopo diversi giorni dalla comparsa dei sintomi evidenti.
Il danno fetale che deriva da ciò può essere rappresentato dalla sua anemizzazione rilevabile dopo la XVIII settimana mediante la valutazione della flussimetria dell’arteria cerebrale media, o dalla comparsa di idrope o ascite fetale.
Al momento non esiste una cura specifica utilizzabile nella gravida. Sono stati effettuati alcuni trattamenti con immunoglobuline in casi particolarmente complessi (idrope, ascite) o mediate trasfusione in utero (anemizzazione).
Va tenuto conto che quanto più precoce sarà l’intervento, specie la trasfusione, minore potrebbe essere il danno da ipossia tissutale, soprattutto a livello encefalico. Infatti, la trasfusione in utero può scongiurare la morte fetale ma, tuttavia, se l’intervento dovesse essere tardivo, si potrebbe verificare comunque un danno neurologico causato da una prolungata carenza di ossigeno a livello encefalico, danno di norma non diagnosticabile fino a dopo la nascita.
Da quanto detto risulta decisamente evidente che è fondamentale intervenire in tempi brevi e che, quindi, sarà assolutamente indispensabile avere delle informazioni chiare dello stato di eventuale immunità della paziente nei confronti dell’agente infettante: la gravida già positiva per le IgG e negativa per le IgM prima del concepimento o nelle prime settimane di gestazione (VI-VIII) potrebbe essere considerata non a rischio. La sieroprevalenza nella fascia di età compresa tra i 15 e i 50 anni va dal 34 al 65% circa e, quindi, un discreto numero di gestanti potrebbe rivelarsi pre-immune.
Di seguito proponiamo un diagramma di flusso esplicativo che fornisce le indicazioni adeguate alla gestione della paziente in gravidanza.
Le pazienti che non abbiano presenza di IgG e di IgM devono essere informate sul fatto che questa infezione può essere trasmessa per via inalatoria anche da soggetti asintomatici. In queste donne i test sierologici, specie in questo momento epidemico rilevante, devono essere ripetuti mensilmente per tutta la gestazione e due settimane dopo il parto: il neonato di donna che si infetti in modo asintomatico alla fine della gestazione potrebbe essere a rischio se non seguito adeguatamente.
Le pazienti non immuni nei confronti del virus e che abbiano avuto dei contatti a rischio con soggetti che presentavano sintomi o che li presentino a distanza di quindici-venti giorni dal contatto devono essere valutate con la massima attenzione eseguendo la QUANTIZZAZIONE delle IgG e delle IgM nell’immediatezza e, comunque, dopo dieci giorni: la risposta sierologica da parte di questo virus è meno aderente all’andamento anticorpale comunemente noto. Ritengo opportuno, comunque, in questa fase epidemica che venga anche effettuata la ricerca QUANTITATIVA del DNA di parvovirus nel siero della paziente dopo almeno 7-10 giorni dal contatto, indipendentemente dalla presenza o meno della sintomatologia. In molti casi abbiamo rilevato l’assenza di risposta anticorpale nei primi 7-15 giorni dal contatto, periodo in cui osservavamo già la presenza del DNA virale nel siero e/o nella saliva.
La situazione della paziente che presenti una eventuale positività di IgM va valutata con grande attenzione e va indirizzata a professionisti che abbiano una rilevante esperienza nel settore. Per questo motivo abbiamo ritenuto opportuno creare una casella di posta elettronica che possa essere utilizzata sia dai medici sia dalle pazienti per ottenere informazioni adeguate alla valutazione delle singole situazioni e delle condizioni di eventuale prevenzione dell’infezione stessa in casi particolari: parvovirusegravidanza@gmail.com.
Non è disponibile una terapia specifica e non è possibile avere contezza dell’eventuale infezione e di relativi danni fetali tranne nel caso in cui compaiano segni evidenti di patologia. La paziente con infezione accertata va monitorata con la massima attenzione quantizzando il DNA virale nel siero e nelle urine e valutandone anche la presenza nella saliva. Inoltre, va seguita con attenzione la cinetica degli anticorpi di classe G e di classe M. Dal punto di vista ostetrico-ginecologico, la paziente deve essere sottoposta ad accurati e frequenti controlli ecografici per la rilevazione di idrope, di ascite o di alterazione dell’accrescimento embrio-fetale; laddove sia possibile è fondamentale la valutazione della flussimetria dell’arteria cerebrale media in quanto l’evidenza di un’eventuale marcata anemizzazione fetale dovrebbe condurre ad un rapido intervento mediante trasfusione in utero. Sottolineo ancora una volta che solo un intervento più che tempestivo può realmente ridurre il rischio di morte in utero o di eventuali reliquati.
Va considerato che i segni di patologia fetale sono rilevabili di norma dopo due-dodici settimane dall’infezione; per questo motivo suggerisco il controllo della gravida dianzi descritto fino ad almeno dodici settimane dal momento dell’infezione.
Va considerato che l’antigene P è presente anche a livello delle cellule cardiache e pertanto ritengo che possano essere opportuni anche dei controlli cardiologici fetali.
Per quanto riguarda il caso di neonato di madre con infezione primaria in corso di gravidanza, si deve far ricorso a indagini diagnostiche che vengono di seguito specificate.
Il figlio di una paziente che si sia certamente infettata nel corso della gestazione, quandanche dovesse risultare negativo alla ricerca del DNA di parvovirus B19 in siero, urine e saliva, dovrebbe essere controllato sierologicamente ogni mese: il neonato, infatti, potrebbe non presentare DNA virale nei campioni su indicati ma potrebbe essere congenitamente infetto. Questo nella quasi totalità dei casi non comporta alcun problema ma, dato il cardiotropismo del parvovirus B19, ritengo prudente programmare controlli cardiologici per il neonato per valutare miocardite o problemi di conduzione.
Per la valutazione attenta dei neonati da madri con gravidanze a rischio da infezione, presso il nostro Policlinico da tempo è stato formato un gruppo di medici e biologi di varie specializzazioni che seguono questi neonati.

Prof. Guido Scalia e Gruppo Multidisciplinare di Diagnostica e Prevenzione delle Patologie da TORCH P.O. “G. Rodolico A.O.U. Policlinico “G. Rodolico-S. Marco”

CONTATTI:
parvovirusegravidanza@gmail.com;
ambulatoriotorchct@gmail.com.

 

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